Articolo di Annalisa Noacco
Per le donne con disabilità, la pandemia ha acutizzato una questione ancor prima già delicata: avere accesso a una risposta sanitaria adeguata legata soprattutto a temi legati alla sfera ginecologica e sessuale. A impedirlo barriere fisiche e, soprattutto, culturali.
Chi ha delle esigenze specifiche si trova di fronte a situazioni per cui, da un lato, vi è la percezione che vi siano delle carenze dal punto di vista dell’adeguatezza dei servizi e, dall’altro, esistono delle difficoltà sia per accedere fisicamente alle strutture, sia nel trovare dei professionisti con competenze specifiche in questi ambiti.
Questo argomento mi tocca personalmente, essendo affetta da spina bifida dalla nascita. Fino ad oggi, infatti, una delle grandi difficoltà che ho riscontrato è rappresentata dalla mancanza di un centro specifico che desse informazioni e supporto, non solo in merito ad aspetti legati all’infanzia, ma anche relativi all’età adulta.
Per quanto riguarda l’accessibilità fisica, ho sempre riscontrato una mancanza di informazioni per me essenziali, come, per esempio, la possibilità di sapere in anticipo se l’ambulatorio è accessibile o meno e se mi è possibile recarvisi autonomamente. Ritengo necessario che una donna con disabilità possa andare da sola e per conto suo ad effettuare una visita ginecologica. Del resto, chi non ha una disabilità lo fa!
Molto spesso, però, ci si ritrova di fronte a situazioni in cui, per esempio, gli ambulatori non sono attrezzati con lettini elettrici, che permettono di muoversi agevolmente e in autonomia. Può succedere che, per chi ha una mobilità ridotta, i presidi non siano adeguati a livello di altezza o tipologia oppure l’equipe medica non abbia delle conoscenze adeguate in quanto la patologia non ha larga diffusione o, come nel mio caso, è stata parzialmente debellata.
La presenza di stereotipi rappresenta uno dei problemi principali, perché porta a non avere un’adeguata presa di coscienza del fatto che vi sia la necessità di dotarsi di determinati ausili o migliorare i servizi offerti.
La donna con disabilità, esattamente come ogni donna, ha la necessità di conoscere a approfondire anche quei temi più legati alla sfera intima e sessuale, come, per esempio, la gravidanza, la vita di coppia o la conoscenza di sé. Continua a prevalere, invece, lo stereotipo secondo cui per una donna disabile, vista la sua condizione, ciò non risulta necessario o è di secondaria importanza. Questo fatto porta a non mettere in discussione lo stato attuale delle cose e, di conseguenza, a non fare dei sostanziali progressi.
Nello specifico, mancano strutture, seminari e corsi di preparazione per il personale. Molto spesso, le donne con disabilità si trovano in enorme difficoltà ad affrontare determinate situazioni, perché non sufficientemente seguite: come è meglio agire nel caso, per esempio di una gravidanza desiderata o in corso?
Si tratta di questioni non solo relative ai controlli di routine, ma che includono anche quelle fasi della vita particolari che dovrebbero essere contraddistinte da una connotazione positiva e speciale. Momenti in cui sarebbero necessarie per una donna indicazioni e sicurezze, mentre si rivelano colmi di insicurezza e preoccupazione.
Qualcosa, però, si sta muovendo: cominciano a prendere forma iniziative promosse da associazioni e psicologi, come, per esempio, quella promossa dal Gruppo Donne della UILDM e rivolta alle strutture sanitarie.
Da uno studio svolto su un campione di 61 ambulatori, è emerso che il 42,62% non dispone di un bagno accessibile alle persone che si muovono con una sedia a ruote. Inoltre, è risultato non essere sempre possibile trovare uno spogliatoio accessibile all’interno degli ambulatori o non è detto che sia garantita la privacy della paziente nella fase preparatoria alla visita. A questo proposito, per esempio, il 38,33% delle pazienti effettuano le visite ostetrico-ginecologiche prive di uno spogliatoio sufficientemente ampio da consentire il movimento di una persona in sedia a rotelle e di un accompagnatore se necessario.
Esiste una generale impreparazione delle strutture sanitarie nel gestire le manovre di movimentazione delle pazienti che si spostano in sedia a rotelle per raggiungere il lettino ginecologico. È stato riscontrato, infatti, che solo una minima parte dei medici che svolgono le visite ostetrico-ginecologiche ha ricevuto una formazione sui diversi tipi di disabilità (motoria, sensoriale e intellettiva).
La strada da fare è ancora molto lunga. Se fino a qualche anno fa il tema principale trattato nei convegni era legato alla prevenzione delle varie patologie, al giorno d’oggi è quanto mai fondamentale approfondire temi quali la disabilità nell’età adulta, compresa la sfera ginecologica, ostetricia e sessuale. Abbattere certi tabù significa che una donna con disabilità potrà rivolgersi a un professionista sanitario senza brancolare nel buio, pensando di desistere e provare sensazioni quali senso di inadeguatezza o “sbagliata” nel porre determinati quesiti o richieste. fare determinate richiesti.
L’inclusione passa anche da questo: garantire a tutti la fruizione e la disponibilità di ambienti, servizi e competenze che possano rispondere alle proprie esigenze.
Approfondimento: https://www.corriere.it/salute/disabilita/22_marzo_11/ambulatori-ginecologia-accessibilita-14eac8ac-962f-11ec-ae45-371c99bdba95.shtml